"Minimum quod potest haberi de cognitione rerum altissimarum, desiderabilius est quam certissima cognitio, quae habetur de minimis rebus."

"Das Geringste an Erkenntnis, das einer über die erhabensten Dinge zu gewinnen vermag, ist ersehnenswerter als das gewisseste Wissen von den niederen Dingen"

(Thomas von Aquin: I, 1, 5 ad 1)

5. Februar 2012

DOMENICA DI SETTUAGESIMA- Paolo VI

Domenica, 14 febbraio 1965


Riserviamo a questo momento della nostra preghiera e meditazione il pensiero sopra il  rano del Santo Vangelo che la Chiesa ci presenta in questa particolare Domenica che, come saprete, nel linguaggio liturgico si definisce di Settuagesima. Essa ci informa e dimostra che siamo a una precisa distanza da una mèta che andrà avvicinandosi con la Sessagesima, con la Quinquagesima e quindi con il periodo della Quaresima, che sarà preparazione e prologo a quello della Pasqua di Risurrezione.

A ben riflettere, in questa Domenica cambia interamente il tono della preghiera e della meditazione. Il tempo dell’Avvento e del Natale ci ha portato alla ricerca di Dio, alla conoscenza del Figlio suo unigenito, Gesù Cristo, alla sua Rivelazione con la festa dell’Epifania e con le altre in seguito celebrate.


Ora cambia l’obbiettivo: siamo piuttosto alla indagine, all’esame dell’uomo. In altri termini, nel periodo, che oggi si inizia, la nostra preghiera avrà per tema fondamentale la sorte dell’uomo, la sua salvezza, il mistero della sua redenzione, incominciando proprio da queste domeniche che fanno da prefazione alla Quaresima, per richiamarci ai grandi temi: vero tessuto di sublime pagina religiosa.

Il primo di essi a presentarsi in questa Domenica è proprio la condizione dell’uomo. Chi recita il Breviario - ove da oggi le lezioni del primo notturno sono della Genesi -, chi medita sull’Epistola odierna, vede molto bene in che modo si presenta l’uomo, dopo. la colpa originale. Non è certo una condizione di felicità, non di perfezione; e nemmeno siamo in uno stato terminale completo, cioè di riposo. Si tratta, invece, di uno stato iniziale, che esige sviluppo, opere, educazione, fatica; insomma, questa la realtà, è uno stato infelice. Perché? Perché siamo peccatori; perché abbiamo ereditato una esistenza afflitta dal peccato d’origine; e, inoltre, l’abbiamo aggravata con le nostre colpe; abbiamo cioè reciso il filo della vita, quello che ci congiunge a Dio. Perciò andremmo incontro a sicura completa rovina se il nostro pellegrinaggio terreno si svolgesse senza l’intervento salvatore di Cristo. Privi di questo infinito dono di Dio, saremmo coloro che la Sacra Scrittura chiama «filii irae», i figli della maledizione.

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